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Home > Le 5 giornate del jazz > Presentazione del curatore Vittorio Albani
Le 5 giornate del jazz
I curatori presentano "Le 5 giornate del jazz"
Paolo Fresu

Quando ho ricevuto l’invito a preparare e coordinare una serie di conferenze sul jazz ho pensato che l’atteggiamento migliore sarebbe stato quello di non uscire dal mio ruolo di artista e di stimolatore culturale.
Ci sono vari modi infatti di leggere o rileggere la storia del jazz. Sono tanti quante sono le personalità straordinarie delle migliaia di artisti che hanno letto e stanno oggi rileggendo il ricco patrimonio di questa musica nel tentativo di innestare il passato nel presente, per dare senso al futuro e alla contemporaneità odierna.
Lo standard nel jazz è quel materiale popolare e conosciuto che diventa (o può diventare) pretesto per muoversi in un territorio originale e personale. Quanti hanno suonato “Caravan” di Ellington cercando da una parte di rispettare la composizione originale e nello stesso tempo di aggiungere qualcosa di proprio? E quanti sono partiti dalla forma AABA di una canzone per scandagliare il significato più profondo di una melodia o il significato e la magia del suono o della frase?
Leggere la storia del jazz attraverso cinque o più trombettisti è per me il modo di usare uno strumento musicale come strumento “altro” per raccontare uno stile musicale che, più di altri, è strettamente legato al corpo, al pensiero, alla società, la religione e la storia con le sue evoluzioni repentine del secolo appena trascorso.
La tromba è inoltre uno strumento non solo diretto ma popolare, capace di arrivare e colpire nel cuore e nella mente. Personaggi come Louis Armstrong, Dizzy Gillespie e Chet Baker sono stati non solo dei grandi strumentisti ma anche degli ottimi ed originali cantanti che hanno stravolto la tecnica ortodossa della voce ed assieme a Miles Davis, ‘bird’ libero come Parker, hanno sconfinato dal piccolo mondo del jazz verso quello di una popolarità tipica di “altre” musiche come il Pop o il Rock.
La tromba è dunque non solo strumento comunicativo ma anche estensione naturale, assieme alla voce, del corpo che respira e che pensa.
Cinque storie e cinque personalità completamente diverse tra loro per raccontare un’epoca irraccontabile e sfuggente. Fatta di porte aperte ed altre chiuse o socchiuse; di stili che si perdono in mille rivoli musicali. Fatta di storie tristi e dure e di poesia. Di suoni laceranti a volte terribilmente sereni e delicati. Fatta di voci, di gesti, di fotografie e di smoking, ma anche di corpi multicolori tra il bianco e nero della storia recente.
Se il jazz è stato ed è questo perché non raccontarlo con il contributo di cinque relatori che lo leggono e lo raccontano a loro volta in modo diverso? E perché non assieme ad un gruppo di amici musicisti che amano la tradizione, coscienti della necessità di essere parte dell’attualità di oggi?
La mia speranza è che questi cinque incontri possano risultare completamente diversi l’uno dall’altro. Se è vero che tra lo stile di Dave Douglas e Louis Armstrong c’è apparentemente poco in comune, è altrettanto vero che la storia del jazz è legata da un inesorabile filo conduttore. Una sorta di filo di Arianna che proveremo a trovare (o ritrovare) durante questi cinque appuntamenti tessendo una maglia fatta da tanti contributi diversi attraverso le voci di Stefano Zenni, Luigi Onori, Enrico Merlin, Giuseppe Vigna e Stefano Merighi.

Vittorio Albani

Pare che le donne, innanzitutto, non capiscano il jazz. Non si è mai ben compreso il perché e sembra semmai vero il contrario perché ai concerti di musica afroamericana – molto più che a quelli pop – pare che proprio le donne formino invece lo zoccolo duro degli uditori. Forse è soltanto una frase fatta o forse, quando Paolo Conte ha scritto “quella” canzone, gli è venuta soltanto un’idea “metricamente” vincente facile da trascrivere.
L’escamotage serve comunque solo ed unicamente a ricalcare un luogo comune, per altro sfatato da un buon decennio alle spalle che ci insegna, invece, come il jazz sia finalmente divenuta prima arte riconosciuta nel campo della musica contemporanea. Dapprima fuggito, in virtù di una non in fondo ben comprensibile difficoltà di fruizione e semmai considerato dai veri cultori del verbo musicale nei Conservatori e nelle sale da concerto “per bene”, ha oggi ribaltato la sua immagine e – caso strano – è proprio nei Conservatori che fa più paura ai puristi, i quali non riescono a comprendere che si tratta  probabilmente di ciò che – molto più di altro – potrebbe essere considerato come l’espressione più moderna del tradizionale significato di musica “seria”. Eppure non è nemmeno di “nuova musica classica” che si tratta. Spiegare il jazz significa innanzitutto trasmettere l’estrema libertà di concezione di un’arte per un verso purissima e per l’altro totalmente contaminata. Forse l’estrema sintesi di ciò che oggi sarebbe classicamente da intendere come “l’arte giusta al momento giusto”. Correlata, come la realtà insegna, con il contemporaneo più stretto e capace di fornire la colonna sonora autentica dei tempi che stiamo vivendo, nel senso più nobile ed intelligente del termine e quindi assai lontano da mode e imbecillità imperanti.
Forse solo parole… cancellabili però all’istante, proprio da un semplice assolo di tromba. E che questo sia storico come quelli di Louis Armstrong o assolutamente d’avanguardia come quelli di Arve Henriksen o Dave Douglas poco importa.
E’ in quel preciso momento che, infatti – complice una semplice intuizione fanciullesca – si può riuscire a comprendere all’improvviso.
Il jazz è sempre erroneamente stato etichettato come “espressione d’elite”; da tempo si va invece affrancando dalla seriosità della sua stessa storia e anche – non me ne si voglia – dai morbosi quanto tediosi incontri conferenzieri che tentavano di spiegarne – attraverso architetture non correlate - la sua essenza e filosofia. Questa serie di incontri è un tentativo: crediamo che siano venuti i tempi di cavalcare il jazz portandone le discussioni nel salotto familiare, incrociandone la straordinaria storia con la voglia di parlarne non in anacronistico doppio petto o facendo accademia. Facendo incontrare alcuni grandi storici e operatori del settore con alcuni suoi primattori contemporanei. Senza assolutamente voler stemperare quella che è una grande e serissima storia nei territori dell’ “easy per forza”, ma considerando anche il “gioco” che la ha sempre accompagnata nel momento topico del concerto. Perché il jazz è anche e soprattutto bello quando nel celebrato interplay fra i musicisti che lo fanno vivere, si riesce a far entrare anche quello con il pubblico, riuscendo così a creare una sorta di “gioco totale”, capace di far divertire chi produce la musica e chi la fruisce.

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