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Che cos'è l' "audience development"?

Con Nuove Culture

E’ un processo, un percorso complesso che ha come finalità allargare e diversificare i pubblici, producendo un miglioramento delle condizioni complessive di fruizione. La traduzione italiana del termine audience development è “sviluppo del pubblico”, termine che ha un riferimento non solo quantitativo, cioè incrementare il numero dei frequentatori, ma anche qualitativo, ovvero una  crescita nel rapporto con il pubblico; qui la parola sviluppo è intesa nel senso etimologico di “liberarsi dal viluppo” cioè dalle barriere di natura sociale, economica, psicologica e culturale. Nella logica corretta con audience non si intendono solo i “nuovi pubblici”: non bisogna dimenticare il pubblico già presente, che va fidelizzato. I due aspetti dunque vanno pensati come integrati.

Il primo punto fondamentale è la conoscenza. Se non si conoscono una serie di aspetti connessi alle motivazioni e ai comportamenti dei pubblici potenziali, difficilmente si riuscirà a progettare un’attività efficace di audience development. Per arrivare al target dei migranti e creare una specie di corto circuito comunicativo che infranga le barriere bisogna sapere, ad esempio, che giornali leggono, che tipo di televisione guardano o se invece non sia forse più importante il call center.

Gli strumenti di audience development normalmente utilizzati sono: la mediazione, il coinvolgimento e l’outreach.

La mediazione è relativa a quelle soluzioni che permettono una migliore fruizione da parte del pubblico, partendo dai pannelli e dalle didascalie fino alla costruzione di visite. L’involvement, il coinvolgimento, tiene conto di esigenze del pubblico molto diverse; per alcuni, ad esempio, tutto si gioca durante la visita e bisogna essere bravi a fornire tutti gli strumenti, alcune persone  hanno bisogno di essere prese per mano, per altre invece si ha la possibilità di rimandare a momenti successivi l’approfondimento di alcuni temi e alcuni contenuti.

L’outreach, attività esterna, ovvero l’”uscire fuori dalle proprie mura”.

Ad esempio, a Torino il Museo di arte antica di Palazzo Madama sta progettando un bus che arrivi in aree periferiche dove esporre alcune opere, portandole a persone che non le andrebbero mai a vedere nel centro di Torino.

Molto spesso le attività rivolte al pubblico degli stranieri si attuano in una logica di iniziativa speciale nel quadro di progetti europei o regionali da realizzarsi una tantum.

Queste iniziative difficilmente raggiungono il rango della continuità e questo è uno dei nodi progettuali critici messi in evidenza: non sempre si parte da un’adeguata analisi per capire come intervenire; l’aspetto dell’episodicità comporta lo sfilacciarsi della rete di relazioni costruita; si riscontra spesso, inoltre, uno scarso ricorso alle collaborazioni interculturali mentre sarebbe importante la “peer to peer communication”, cioè avvalersi degli stranieri stessi come ambasciatori di quanto viene fatto.

Un modello interessante, certamente noto a chi lavora nelle biblioteche, sono gli Ideastore di Londra, che mutuano in parte l’attività delle librerie, lavorano molto sull’ambiente e sul setting, per avvicinare alla lettura pubblici, che normalmente non frequentano la biblioteca. L’idea è che in biblioteca si possano fare diverse cose ed è stato un italiano, il torinese Sergio Dogliani, a mettere in piedi tutto questo.

La zona è quella di Whitechapel Street est di Londra, un ambiente multietnico, con un indice di lettura tra i più bassi di tutta l’area metropolitana e con una serie di problemi legati alla sicurezza. Si è condotta un’analisi dei bisogni su un campione di 200 persone, andando a casa loro e pagandole per il disturbo.

Ne è emerso che la gente sarebbe andata in biblioteca se avesse potuto combinare la visita con altre attività, come fare la spesa o portare i figli a scuola. Tutto è stato pensato in questa logica, lavorando anche sull’abbattimento del diaframma tra esterno ed interno: non esiste un bancone e se non si deve utilizzare internet o prendere libri in prestito non è necessario il contatto con il personale; le attività si svolgono alla sera oppure al mattino e gli orari sono stati pensati in base a quanto emerso dalle interviste preliminari.

Si tratta di un bell’esempio di come l’analisi ha informato la progettazione.

 

Secondo Bollo non c’è uno strumento unico per svolgere un’attività di audience development efficace, molto dipende dal contesto, da quello che si fa, dalla propria  identità, dai propri obiettivi e dalla cornice di tipo politico-programmatico in cui ci si situa. Si potranno utilizzare vari strumenti, lavorare su progettazione, mediazione, coinvolgimento, outreach, dandosi anche obiettivi diversi.

Ciò che molto spesso realizzano i musei, ma non solo, sono azioni che si potrebbero ascrivere al multiculturalismo conoscitivo, cioè far conoscere alla popolazione autoctona “gli altri”.

A Torino, una decina di anni fa, alla Galleria d’arte moderna si è tenuta la grande mostra “Africa”, primo tentativo di presentare alla popolazione torinese una cultura molto ricca, i cui contenuti, linguaggi, opere d’arte hanno influenzato la produzione culturale europea dell’ultimo secolo.

Il percorso opposto è quello di utilizzare le attività interculturali in una logica di integrazione dei nuovi cittadini, coinvolgendoli e rendendoli consapevolmente partecipi della propria cultura, del suo sistema di valori e della relativa produzione artistico-culturale.

Un altro tipo di approccio è quello della programmazione culturalmente specifica, una sorta di riequilibrio, di restituzione della rappresentanza: si organizzano attività pensate per riequilibrare il panorama delle diverse anime e delle diverse culture che abitano il territorio.

 

Tutti questi tipi di approccio però implicano, anche se in maniera e misura diverse, la distinzione tra “io” e “gli altri”: gli altri “che si devono integrare”, io “che li devo conoscere”; gli altri che devono essere rappresentati. C’è bisogno, quindi, di un passaggio ulteriore, qualitativo, dove si costruiscono spazi terzi, in cui sostanzialmente ci si mette in pari e si crea qualcosa di nuovo: in questo caso invece di assumere delle identità se ne creano. E’ un rapporto dialogico, paritetico, di progettazione partecipata.

 Con Nuove Culture

La parola è passata ad Alessandra Gariboldi.  

In genere i musei e le istituzioni culturali iniziano adesso ad alfabetizzarsi sul tema, stanno ragionando sulla loro possibilità di approccio interculturale al patrimonio.

Mentre nella mediazione con famiglie, anziani, diversamente abili si può lavorare su differenti aspetti e per gradi, con i cosiddetti migranti se si vuole adottare un approccio interculturale e trovare un terreno comune su cui comunicare non ci si può limitare a tradurre le brochure.

Si tratta di un processo che ha implicazioni non secondarie per le istituzioni culturali che lo affrontano perché significa lavorare davvero assieme, mettersi sullo stesso piano, in un contesto in cui non solo le lingue sono differenti, ma anche il modo di rapportarsi agli utenti.

Come per tutti i processi di audience development i progetti/processi si muovono sul medio-lungo periodo, tenendo conto che sono percorsi difficili da valutare e da documentare.

 

L’approccio da cui muovere è che chiunque gestisca o crei patrimonio culturale deve intenderlo in termini processuali e non sostanziali, quindi non solo il patrimonio come bene per il suo valore storico o artistico, ma anche perché esso è il frutto di un incontro fra culture, persone, tempi e spazi diversi.

L’attenzione al patrimonio e alla sua natura processuale, pertanto, è fondamentale nel momento in cui, ad esempio, tentiamo di incontrare l’altro utilizzando un oggetto, la cui potenzialità è essere portatore di segni plurimi. Il patrimonio non vale solo perché è splendido, bisogna esercitarsi anche a leggerlo come un “mediatore” che offre la possibilità di creare nuovi significati, interpretazioni, esperienze, memorie, identità.

L’approccio interculturale al patrimonio è quello più carico di implicazioni ed è fondamentale lavorando con pubblici stranieri. In proposito c’è un libro scaricabile online di Nina Simon, “The Partecipatory Museum” che verte su tecniche, esperienze e implicazioni dell’aprire la propria istituzione culturale ad un approccio partecipativo. Questo approccio comporta il non considerare rigidamente i significati e le interpretazioni del proprio patrimonio ma porsi nell’ottica che, se da un lato si è portatori della propria cultura, dall’altro non si è comunque gli unici a leggerne il patrimonio che per altri sarà qualcosa di diverso, ma altrettanto legittimo.

E’ la ricchezza dei punti di vista che darà il senso alla mediazione. Scegliendo gli oggetti bisogna avere il coraggio di privilegiare quelli che sanno parlare a tutti, selezionarli per la loro capacità di generare interazione.

 

Secondo Alessandra Gariboldi, si possono individuare tre fasi nell’iter della progettazione e bisogna aver ben chiaro che la pianificazione sul lungo periodo è un prerequisito.

In primo luogo è necessaria una chiara definizione degli obiettivi, che possono essere molto diversi, da quelli rivolti al proprio interno (es.: cosa si vuole raggiungere per l’istituzione?) a quelli rivolti al pubblico straniero (es.: cosa si vuole raggiungere nei loro confronti?).

Un successivo aspetto è la scelta degli interlocutori, sia coloro con cui si lavora sia coloro a cui ci si rivolge e la conoscenza è fondamentale: sapere ad esempio dove gli stranieri sono localizzati, se si tratta di famiglie o di individui singoli, come si situano rispetto alla prospettiva di rimpatrio, se è presente e in quale grado la paura di “perdere l’identità”.

E’ necessario ricordare che un progetto interculturale deve coinvolgere italiani e stranieri, altrimenti non è tale e, quindi si deve decidere se si vuole lavorare con una comunità specifica o rivolgersi a tutti gli stranieri. Si devono tenere sempre presenti le condizioni e i vincoli esistenti: ad esempio, un conto è lavorare con una comunità presente da tempo sul territorio, un altro con chi è appena arrivato e magari deve far fronte a problemi di sopravvivenza. Porre in relazione comunità diverse può, inoltre, divenire una specie di esperimento sociale, può succedere di scontrarsi con idiosincrasie impreviste e talora fortissime.

La terza fase concerne l’individuazione di strumenti e strategie, che vanno mediati con gli interlocutori e calibrati sul pubblico.

Il coinvolgimento deve concernere tutte le fasi, la reinterpretazione del patrimonio, la definizione dei gruppi, la loro interpretazione del proprio essere qui e quindi la loro interazione con noi nel territorio, perché dove il coinvolgimento manca il progetto è svuotato e i risultati sono inferiori alle potenzialità.

La scelta di parlare dei casi italiani è legata al fatto che per altre realtà europee la comunità migrante è residente da più generazioni, c’è una differenza culturale ma non ci sono tutte le altre barriere, cosa che comporta problemi specifici.