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"L'IS non si cancella dalla mente"

Salah Ahmad è un curdo iracheno che con i collaboratori della sua Jiyan Foundation dal 2015 si occupa di garantire la pace ai suoi connazionali, anche quella interiore. È stato a Bolzano su invito dell'Associazione per i Popoli Minacciati e ha parlato dell'attività della Jiyan Foundation nella Biblioteca Culture del Mondo.

Salah Ahmad

Signor Ahmad, com'è attualmente la situazione nella sua terra d'origine, la Regione Autonoma del Kurdistan?

Salah Ahmad: La crisi economica ci ha colto di sorpresa due-tre anni fa. É iniziata con il crollo del prezzo del petrolio che ci ha colpito molto duramente. Perché quando l'Iraq del Nord ha ottenuto l'autonomia dal governo centrale, la nostra regione ha conquistato la sovranità sui giacimenti petroliferi. Il nostro governo con i proventi ricavati ha costruito infrastrutture pubbliche, case e strade, perché dopo la guerra in Kuwait, dopo Saddam Hussein, era tutto distrutto.

La sua regione si è modernizzata...

Eravamo già sulla buona strada. Ma il governo non aveva pensato ad investire il denaro ricavato dal petrolio per espandersi in altri settori e assicurarsi altri introiti. Ora però lo Stato non ha più soldi. E del resto con il governo centrale già all'epoca non erano stati stipulati ulteriori accordi: Bagdad non eroga soldi, Erbil non ha soldi. Persino gli stipendi degli impiegati non vengono pagati, o vengono corrisposti solo in piccola parte.

C'è povertà?

La gente non ha soldi o semplicemente ne ha troppo pochi. Forse non è propriamente povera. Siamo in una fase di stallo. Abbiamo sei partiti in parlamento, c'è democrazia, ma c'è anche troppa corruzione. Confidiamo nelle prossime elezioni con la speranza che la ricostruzione vada avanti. Da noi molte persone sono traumatizzate, come ONG spesso non sappiamo come star dietro alle richieste. Benché la nostra Jiyan Foundation abbia ricevuto soldi dall'Ufficio governativo per le ONG, ora anche per noi questi mezzi sono venuti a mancare. Per fortuna riceviamo aiuti dall'estero, dalla Germania, dall'ONU, dall'ACNUR (l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) o donazioni da privati. E, me lo lasci dire: i soldi dell'Alto Adige sono arrivati proprio al momento giusto, quando non sapevamo più come andare avanti.

Un sostegno della Cooperazione allo sviluppo della Provincia autonoma di Bolzano? Come sono state investite queste risorse?

Sì, dunque, il contatto con l'Ufficio Affari di Gabinetto si è concretizzato quando stavamo formando dei collaboratori per farli diventare arteterapeuti. Avevamo bisogno di più personale specializzato competente, perché i collaboratori disponibili erano sovrautilizzati. Gli aiuti statali sono venuti a mancare. Con i 30.000 euro donati dalla vostra provincia siamo riusciti a formare 28 terapeuti.

Come lavora la Jiyan Foundation?

Mandiamo avanti dodici strutture nelle città di Duhok, Erbil, Kirkuk, Sulaymaniyah, Chamchamal e Halabja; inoltre lavoriamo in alcuni campi profughi e abbiamo 24 team mobili che vanno nelle periferie. La nostra offerta è ampia e variegata. Proponiamo percorsi terapeutici per famiglie, bambini e adolescenti, terapia comportamentale e colloqui terapeutici, oltre naturalmente alla terapia traumatologica. Nei campi arrivano profughi con ferite ancora fresche. Con loro ricorriamo a metodi diversi da quelli adottati per chi cerca il nostro aiuto, ma può vivere a casa propria. In quest'ultimo caso infatti si tratta di pazienti più stabili.

Di che cosa hanno bisogno le persone nei campi profughi?

Nei campi vivono persone che hanno subito forti traumi. Chi è rimasto prigioniero dell'IS ed è stato torturato ha subito gravi danni fisici, ma è stato annientato anche psicologicamente, umiliato, trattato come un rifiuto umano. Le vittime dell'IS sono nella maggior parte dei casi a rischio suicidario. Potrei riferire tanti episodi vissuti dai nostri pazienti e descrivere per esempio che cosa prova un prigioniero quando un soldato dell'IS gli preme una sigaretta sulla guancia fino a spezzarla in due. Oppure le violenze brutali subite dalle donne. O ancora l'essere costretti ad assistere ad esecuzioni sommarie e a decapitazioni. I nostri pazienti che sono rimasti traumatizzati di recente in modo particolarmente grave vivono nel campo di Mossul, situato a ovest vicino al confine con la Siria.

Qual è l'aspetto peggiore dell'essere stati prigionieri dell'IS?

Le pratiche illegali che l'IS riserva agli esseri umani. Questa assoluta arbitrarietà, che impedisce di sapere che cosa succederà e quando succederà, e fa sentire un prigioniero totalmente in balia dei suoi aguzzini. Quasi sempre la realtà supera l'immaginazione e poi accade qualcosa di più brutto di quanto si pensasse. Senza un supporto terapeutico spesso con simili traumi non è più possibile tornare a condurre una vita normale. Chi nonostante tutto sopravvive, ma rimuove le ferite dell'anima perché fanno troppo male, viene sopraffatto dal dolore.

Come?

Molti di quelli che sono riusciti con una fatica inaudita, o grazie alla loro famiglia, a ricostruirsi una vita normale non si comportano più come prima: diventano intrattabili, imprevedibili, irascibili. Fino al punto da essere evitati da tutti, dal momento che nessuno vuole più avere a che fare con loro. Perciò si isolano e tornano ad essere a rischio suicidario: la solitudine e l'emarginazione fanno sanguinare le ferite.

I curdi hanno anche loro alle spalle tante guerre?

Quasi tutti i nostri clienti hanno due o tre traumi. Un tempo si parlava di nevrosi di guerra, oggi ci sono tre metodologie differenziate per accostarsi alle ferite inflitte una dopo l'altra in momenti diversi e per curarle. In alcuni casi i colloqui terapeutici non bastano e non si fa nessun progresso. A volte allora si ricorre alla fisioterapia o per l'appunto all' arteterapia.

La psicoterapia, almeno in Europa, è ampiamente tabuizzata. Come mai i pazienti che hanno bisogno di aiuto trovano il coraggio di rivolgersi a Lei?

Le donne spesso cercano aiuto da noi di loro iniziativa. A casa dicono: vado dal medico. Così non serve nessun'altra giustificazione. Invece gli uomini effettivamente fanno fatica. Quelli che sono malati cercano aiuto e vengono da noi. Chi una volta ha iniziato una terapia torna volentieri. Quando di recente ho dovuto disdire l'appuntamento fissato con un paziente per questa settimana perché dovevo essere qui a Bolzano, lui mi ha guardato un po' turbato e mi ha chiesto: "Saltiamo solo un incontro?" Chi conosce la sensazione di sollievo che si prova quando si curano le ferite dell'anima, non smette finché non guariscono.

Quanto durano le terapie?

I pazienti vengono circa per un anno e la maggior parte di loro di fatto guarisce anche. Alcuni poi, una volta trascorso un po' di tempo dalla prima terapia, vedono riaffiorare le vecchie paure e quindi ritornano. Quasi sempre nel giro di poche sedute la cosa si risolve. Mi viene in mente il caso di un uomo che anni addietro era stato da noi e alla fine non era più a rischio di suicidio. Anni dopo però aveva perso la moglie. Allora è venuto da me e mi ha detto: "Vorrei tanto seguirla." Il suo dolore si dissolveva in fantasie suicide. Dopo alcune sedute quest'uomo ha ritrovato il coraggio di continuare a vivere.

Chi sono i collaboratori della Jiyan Foundation?

Attualmente sono 160, sono tutti iracheni con una buona formazione professionale e sanno di che cosa si tratta quando i pazienti raccontano. Ognuno dei nostri collaboratori, quando inizia a lavorare da noi, ha almeno 200 ore di esperienza terapeutica alle spalle. Noi diamo molta importanza alla competenza assoluta. I nostri collaboratori condividono con me e con la fondazione la stessa missione: quella di essere qui per costruire ponti. É necessario porre fine al dolore provocato da un passato di guerra perché possa esserci un futuro.

In Iraq, anche nel Nord, si parlano diverse lingue. Come fate a comunicare con i pazienti? 

Noi curdi abbiamo due dialetti, il Sorani e il Kurmandschi, ma ci sono anche pazienti che parlano l'arabo e, a seconda della zona, ancora altri dialetti e lingue. Ogni collaboratore deve avere una buona padronanza di tutti i dialetti e le lingue che si parlano nella struttura in cui lavora. Ognuno parla con i pazienti nella loro madrelingua. Questa è per noi una condizione imprescindibile: delle ferite più nascoste si può parlare solo nella propria madrelingua.

Come fate a resistere quando ascoltate le esperienze quasi sempre brutali e i racconti dei pazienti?

Non sarebbe possibile sopportare tutto questo senza un rapporto professionale. Le nostre strutture dispongono di tutta una serie di mezzi moderni. Ogni terapeuta partecipa regolarmente a supervisioni di gruppo e individuali. Abbiamo i nostri supervisori, condizione irrinunciabile questa per poter svolgere il nostro lavoro per periodi così lunghi. Se non ci preoccupassimo del benessere psichico dei nostri specialisti, non potremmo fare questo lavoro perché i collaboratori getterebbero la spugna per burn-out. E oltretutto per noi c'è sempre più lavoro.

La terapia traumatologica in Europa è possibile solo da pochi anni. Com'è stato possibile per Lei in Iraq lavorare con la psicoterapia a livelli così alti?

Questo ha a che vedere con la mia storia personale. Sono fuggito. Mi sono rifugiato in Germania. Come profugo, con i soldi che mi erano rimasti ho frequentato dei corsi di tedesco. Pensavo di rimanerci solo per poco e di ritornare in Iraq. Poi ho iniziato una formazione e sono diventato psicoterapeuta per famiglie e bambini. Ed è allora che ho imparato la terapia traumatologica. Parallelamente ho trovato impiego come consulente per questioni riguardanti l'Iraq, i curdi e i profughi e sono stato convocato anche come osservatore esterno nei processi in tribunale. Inizialmente da Amnesty International e dall'Ordine dei medici di Berlino; nel frattempo poi sono arrivate richieste dall'ONU, dall'ACNUR e da altre organizzazioni internazionali.

É tornato in Iraq dopo la caduta di Saddam Hussain?

Esatto. La sua politica era il motivo per cui sono dovuto fuggire. Con l'istituzione della Jijan Foundation il mio obiettivo era fare ciò che facciamo oggi: aiutare i curdi a convivere, a vivere insieme l'uno con l'altro. Non solo l'uno accanto all'altro. Le nostre terapie costruiscono ponti per unire tutti i curdi, qualunque lingua parlino e a qualunque etnia appartengano. Per conoscersi, si conoscevano anche prima, ma non hanno mai voluto avere a che fare l'uno con l'altro. E a quel punto, di lì a trincerarsi dietro i propri pregiudizi il passo era breve. Pregiudizi che hanno portato anche a conflitti armati, procurando a tutti ferite insanabili, purtroppo anche nell'anima.

La Jiyan Foundation ha appoggi a Berlino?

Sì. Oggi manteniamo la nostra rete di contatti a Berlino che nel frattempo è arrivata fino al governo e al parlamento tedesco: la vicepresidente del Bundestag Claudia Roth ci aiuta a trovare fondi.

Nel 2015 Lei è stato addirittura insignito della Croce federale al merito.

Sì, questa è una bella cosa e aiuta a ricevere altre risorse finanziarie per il nostro lavoro; anche i singoli Länder ci aiutano. Purtroppo dipendiamo sempre più dall'appoggio dei Paesi esteri. Abbiamo bisogno di molti soldi, moltissimi soldi. Le nostre terapie sono gratuite per i pazienti. Poiché godiamo della fiducia della popolazione, facciamo fatica a stare dietro alle richieste. Ma anche le pubbliche istituzioni sono contente del nostro lavoro: abbiamo ricevuto ringraziamenti ufficiali in quanto siamo una delle cinque ONG del Paese. Nell'Iraq del Nord lavorano 7.000 ONG.

Che obiettivo si propone di raggiungere con la fondazione?

Vogliamo fondare un istituto di ricerca che si occupi di studiare i traumi di guerra, che sviluppi altre terapie e offra iniziative formative: un centro per il Medio Oriente in cui ci sia molto da fare in futuro per tutti quanti insieme. Perché lo sappiamo: l'IS non finisce quando finisce la guerra. Poi c'è anche tutto il programma che è ancora nelle teste di chi vi ha aderito. Tanto per fare un esempio: 1.400 bambini curdi sono stati rapiti dall'IS e addestrati a diventare bambini-soldato. Oggi vivono in istituti per l'infanzia che sono in mano all'IS. Che cosa ci aspetterà quando la guerra sarà finita e questi bambini un domani dovessero tornare a far parte del tessuto sociale? Preferiamo non immaginarlo.

 

Background

Salah Ahmad è il fondatore della Jiyan Foundation. Ahmad nel 1981 è fuggito dall'Iraq e si è rifugiato in Germania. Dopo aver seguito un percorso formativo come psicoterapeuta per famiglie, bambini e adolescenti, è tornato nell'Iraq del Nord. Dal 2005 cura e assiste insieme ai collaboratori della fondazione, che nel frattempo sono diventati 160, le vittime di torture e violazioni dei diritti umani.

Nelle sei località nordirachene di Duhok, Erbil, Kirkuk, Sulaymaniyah, Chamchamal e Halabja e nei due campi profughi di Domiz (profughi siriani) e Khanke (profughi interni yazidi) la fondazione offre un supporto psicoterapeutico, ma anche consulenza legale.

I destinatari della Jiyan Foundation sono donne e bambini, ma anche altri gruppi a rischio, come ex detenuti e persone provenienti dalle zone rurali, a prescindere dalla loro età, dalla loro appartenenza etnica e dal loro credo religioso.

Intervista Jutta Kußtatscher
Traduzione Alessandra Ghedina

 

Raccolta fondi:

Jijan Foundation for Human Rights

Banca etica

BIC/SWIFT: GENODEF1ETK

IBAN: DE48830944950003319644

 

Salah Ahmad è stato a Bolzano su invito dell'Associazione per i Popoli Minacciati e ha parlato dell'attività della Jiyan Foundation nella Biblioteca Culture del Mondo.

SH

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